L’organizzazione della didattica nel periodo emergenziale – l’esperienza ce lo ha ormai ampiamente insegnato – risulta più complessa che mai.  

I piani di lavoro si sono moltiplicati. Protocolli, note ministeriali e magmatica normativa alla mano, da dirigente si devono gestire, a titolo solo esemplificativo: la questione degli spazi; il reclutamento del personale aggiuntivo per il contenimento del contagio e la più approfondita e specifica pulizia degli ambienti; l’organizzazione delle attività in presenza e, dove possibile o imposto da provvedimenti delle autorità competenti, di quelle a distanza; lo stato della rete della scuola e la disponibilità di risorse tecnologiche per gli studenti.  

Alla crescente complessità del tutto concorre anche l’affastellarsi delle variabili: alunni e personale docente sottoposti alle quarantene disposte nonostante lo sfilacciamento – se non il venir meno – delle procedure di contact tracing; la possibilità, oramai chimerica, di trovare dei supplenti; la continua e sistematica necessità di mutare l’organizzazione del servizio in ragione di provvedimenti esterni alla scuola che ribaltano quanto stabilito appena il giorno prima. 

Nonostante tale complessità, si fa di tutto per garantire agli studenti e alle loro famiglie il servizio o quel che resta di esso, in modo che sia efficace e, soprattutto, equo. I dirigenti, non ci stancheremo mai di ripeterlo, stanno lavorando sette giorni a settimana da mesi e stanno garantendo collaborazione continua all’Amministrazione centrale, agli USR, alle ASL, agli enti locali.  

In questo problematico contesto, il Ministero inoltra alle scuole frequenti richieste di informazioni – ultima, in ordine di tempo, quella pervenuta la sera del 13 novembre scorso che, a onor del vero, non è connotata da particolari difficoltà – alle quali pretende riscontro nel giro di pochissimo tempo. I dirigenti scolastici non si sottraggono a tali rilevazioni, seppure caratterizzate da tempi di risposta compressi.  

Eppure, qualcosa non torna.  

La conoscenza dei dati, di norma, è cosa buona e utile quando è finalizzata al funzionamento di un sistema di gestione e di controllo che fornisce, a sua volta, risposte e feed-back operativi alla rete di soggetti che fanno capo ad esso. Ma tutto questo non si è verificato. È da mesi, infatti, che l’Amministrazione centrale richiede dati su banchi, spazi, organico, casi di contagio, device senza quasi mai restituire informazioni utili al lavoro dei colleghi o funzionali all’elaborazione di piani di azione mirati. Il carattere estemporaneo e subitaneo di tali richieste non rende altresì pianificabile, da parte del dirigente, il lavoro di segreteria necessario per farvi fronte. Inoltre, questa attività di monitoraggio spesso si sovrappone a quella degli uffici periferici creando una condizione di ridondanza che depaupera di senso l’operazione. È opportuno ricordare che il legislatore si era preoccupato di assicurare la sensatezza della rilevazione dei dati emanando la disposizione di cui all’articolo 1, comma 140 della legge 107/2015.  

Inevitabilmente, e comprensibilmente, questa dinamica innesca malcontento nei colleghi che vivono una condizione di spaesamento, congiuntamente a uno stato di pressione psicologica sempre meno sostenibile.  

In buona sostanza, raccogliere informazioni è cosa buona ai fini della conoscenza dello stato delle cose ma, in questo caso, la sua utilità non appare evidente.