Nelle ultime settimane si è molto parlato di un referendum consultivo, in programma domenica 26 maggio a Bologna. Per quanto non determinante, all’esito della consultazione si guarda però con molto interesse per la sua valenza di principio.
 
La questione su cui si chiede ai cittadini di pronunciarsi è semplice, anzi semplificatoria: se vogliono mantenere l’attuale sistema di sostegno finanziario comunale alle scuole dell’infanzia anche paritarie (circa il 23% del totale) o se vogliono che il Comune finanzi solo le scuole a gestione pubblica. La scelta “abolizionista” è chiamata opzione A, quella di confermare l’attuale assetto è l’opzione B.
 
Sul punto si sono già espressi in molti: quasi tutte le principali forze politiche sono schierate a sostegno della giunta PD di Bologna sull’opzione B: ma uno schieramento trasversale che ha scelto di richiamarsi fin dal nome all’articolo 33 della Costituzione si batte invece in favore dell’abrogazione del regime attuale.
 
ANP è, da sempre, convinta che ciò che rende una scuola “pubblica” sia la sua apertura a tutti i cittadini e non il suo carattere statale o non statale. In coerenza con questa convinzione – che è anche consegnata nel suo statuto – ritiene necessario intervenire nel dibattito con la nota che riportiamo di seguito.
 
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Il colore del gatto

Molti anni fa, quando era di moda
guardare alla Cina, veniva citato spesso un aforisma attribuito a Deng
Xiaoping: “non importa di che colore sia il gatto, l’importante è che mangi il
topo”.

Altri tempi ed altra sinistra.
Quella parte di essa che ha voluto il referendum del 26 maggio a Bologna, per
esempio, sembra fermamente convinta che il colore del gatto – cioè di chi
gestisce le scuole dell’infanzia – sia l’unica cosa che conta.

I dati di fatto sono stati molte
volte ricordati: Bologna è governata da una giunta di sinistra e fu un’altra
giunta di sinistra, quasi vent’anni fa, ad inventare quel modello di
sussidiarietà educativa i cui risultati si vedono oggi: quasi il 99% dei
bambini dai tre ai sei anni frequentano la scuola dell’infanzia, un dato di
eccellenza a livello internazionale.

Di quel 99%, una piccola parte –
circa un quinto – frequenta scuole paritarie, quasi tutte cattoliche. Molti di
più sono quelli che frequentano scuole comunali. Ognuno di loro costa quasi settemila
euro l’anno, mentre il contributo per le famiglie che scelgono di iscrivere i
figli alle scuole paritarie è di appena 600 euro. Con un costo, per
1800 bambini, di un milione di euro su trentasei milioni complessivi.

Detto in un modo diverso: se quei
contributi non ci fossero ed il Comune dovesse farsi carico di tutti i bambini
che ora ne beneficiano, spenderebbe dieci volte tanto. Più realisticamente,
visto che i soldi sono quelli che sono e che il patto di stabilità non
consentirebbe in ogni caso di spendere di più, nove su dieci di loro
rimarrebbero senza una scuola da frequentare.

Fiat justitia, pereat mundus? Non
può certo essere questa l’intenzione che muove i promotori del referendum: ma
questo ne sarebbe l’effetto, se dovesse prevalere l’opzione A, quella che
propone di non sostenere più le scuole paritarie dell’infanzia. Con buona pace
dell’uguaglianza dei diritti – quella sì sicuramente di rilevanza
costituzionale.

Per una volta, il fronte del “no”
è largo e trasversale, includendo tutte le principali forze politiche ed un
arco di soggetti che vanno dalla CEI alle Coop. E non ci sarebbe bisogno di
scomodare Manzoni per ricordare che quando Perpetua e il cardinal Borromeo la
pensano allo stesso modo, questo vuole pur dire qualcosa.

Si eviti almeno, per rispetto
della Carta costituzionale, di tirarla in ballo in questa questione: non si può
usare la Costituzione contro se stessa, per negare il diritto all’istruzione ad
una parte dei cittadini e per ridurre la misura dell’uguaglianza fra di loro. Quando
si contrappone la lettera di una norma alla ratio che la ispira non si rende un
buon servigio alla norma e neanche alla società civile, che deve trovare in
essa una tutela e non un nemico.

Se ne ricordino i cittadini di
Bologna domenica prossima: e scelgano di confermare, con l’opzione B, una decisione
che ha giovato alla scuola. Non sarà perfetta, ma è l’unica che abbiamo: e non
la si difende partendo dalla demolizione di ciò che va bene, nella ricerca
irrazionale del “meglio assoluto”. Una volta, a sinistra, si sapeva che
l’estremismo è la malattia infantile del comunismo. Stupisce che a
quell’eredità politica e culturale si richiamino oggi coloro che si comportano
come se l’avessero dimenticato.