Pubblichiamo di seguito l’articolo di Giuliano Coan, consulente dell’Anp in materia pensionistica, che illustra le principali novità introdotte dalla recente normativa circa il progressivo innalzamento del requisito dell’età per il pensionamento di vecchiaia per le dipendenti del pubblico impiego.

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I nuovi requisiti per la pensione di vecchiaia delle donne nel pubblico impiego a partire dal 2010
di giuliano coan

Aumenta, dal prossimo anno, da 60 a 65 anni l’età per il pensionamento di vecchiaia delle dipendenti del pubblico impiego iscritte all’Inpdap. Per le lavoratrici dipendenti dei Ministeri, degli Enti locali, delle Asl e delle Scuole, si ritorna al 1995 quando, prima della riforma Dini, la pensione di vecchiaia dei lavoratori pubblici si conseguiva a 65 anni, senza differenza tra uomini e donne.

Il passaggio alla nuova soglia dei 65 anni avverrà gradualmente, al ritmo di un anno ogni due, arrivando a regime nel 2018.

Così nel 2010 e fino al 2011 occorreranno 61 anni; nel biennio 2012/2013 serviranno 62 anni, nel biennio 2014/2015 e in quello 2016/2017 la soglia di età salirà, rispettivamente, a 63 e 64 anni. Il traguardo dei 65 anni sarà raggiunto dal 1° gennaio del 2018.

Si registra pertanto che il sacrificio è più contenuto per le donne nate nel biennio 1950/1951 perché occorrerà attendere solo un anno, l’attesa sarà più lunga per coloro che sono nate dal 1954 in poi perché per loro l’allungamento dell’età pensionabile è di cinque anni.

Altra novità: dal 2010 scatta quota “95” per la pensione di anzianità. Le dipendenti che abbiano maturato i 35 anni di contributi potranno andare in pensione rispettando il meccanismo delle cosiddette quote introdotte dalla Legge 247/2007, che prevede la combinazione con i 60 anni di età o 36 di contributi e 59 anni età.

Sull’innalzamento dei requisiti anagrafici per la vecchiaia, c’è già chi escogita strategie per aggirare la norma. A dire il vero, due sono le strade percorribili anche se ambedue comportano la conseguenza di vedersi liquidata una pensione più bassa di quella maturata.

La prima è prevista dalla Legge 243/2004, che fino al 2015 consente solo alle donne, nel caso optino per il calcolo contributivo, di andare in pensione con 35 anni di contributi e 57 di età.

La seconda, invece, assai più tortuosa, prevede la possibilità di trasferire gratuitamente al regime Inps la contribuzione versata presso l’Inpdap qualora la dipendente lasci il servizio senza aver maturato i requisiti minimi di età e di contribuzione previsti per la pensione pubblica in regime INPDAP. In questo modo, basterà dimettersi dall’impiego prima di raggiungere l’età pensionabile e, una volta trasferita la contribuzione dall’Inpdap all’Inps, chiedere la pensione di vecchiaia a quest’ultimo Ente, ove l’età pensionabile per le donne è rimasta inalterata a 60 anni.

Come detto, in ambedue le ipotesi ci sono conseguenze fortemente negative perché, nel primo caso, la pensione calcolata con il contributivo è più bassa di quella calcolata con il sistema retributivo mentre, nel secondo, il periodo che sarebbe preso a base per individuare la retribuzione pensionabile è più ampio di quello applicato dall’Inpdap.

Va, infatti, ricordato che la cosiddetta Quota A della pensione retributiva dei dipendenti pubblici, in altre parole quella maturata per i contributi versati fino al 1992, prende a base la retribuzione annua percepita prima della cessazione, mentre quella valida per gli iscritti Inps utilizza la retribuzione media degli ultimi 5 anni di lavoro.

Con 40 anni di anzianità contributiva, infine, si raggiunge il requisito per il pensionamento indipendentemente dall’età.