E così, a quanto pare, la campagna contro il decreto dello scorso aprile,
relativo ai test di ammissione all’università ha ottenuto il suo scopo:
rinviare le prove a settembre e modificare il peso del voto di maturità. E’
qualcosa di cui rallegrarsi?

Ci sono parecchi motivi per
dubitarne. Intanto, il rinvio in sé. La cultura del rinvio fa parte del DNA
nazionale, come tutti sappiamo. Ma l’aver anticipato i test a luglio era
coerente con l’aver reso le graduatorie nazionali e quindi con la necessità di
provvedere, una volta stilata la lista generale, alle ripartizioni fra gli atenei
interessati. Quel rinvio si ripercuoterà a cascata sulle operazioni successive
e rischia di generare altro caos nell’avvio dell’anno accademico. Era proprio
il caso?

Molti fra gli studenti
interessati (e le loro famiglie) avevano programmato i propri tempi – incluse
le vacanze post-maturità e le relative prenotazioni – in funzione del
calendario precedente. Lo spostamento rischia di creare problemi di
organizzazione anche personale e familiare, oltre a “tenerli sulla graticola” e
sui libri per altri cinquanta giorni. Anche qui: era veramente necessario? E
non sarebbe stato più serio che i candidati si misurassero con i test
all’indomani della maturità, con le conoscenze ancora fresche e senza aver
“staccato” psicologicamente?

E veniamo al tanto detestato
“bonus”. Sarebbe ipocrita far finta di ignorare quel che tutte le statistiche
ci mostrano con evidenza: in alcuni istituti le probabilità di conseguire il
voto massimo sono fino a venti volte superiori a quelle di altri. E, purtroppo,
le ragioni non sono sempre da individuare in una specifica eccellenza di quelle
scuole.

Chi si è scandalizzato nei giorni
scorsi perché, a parità di voto, il bonus spettante poteva essere diverso ha
riflettuto sul fatto che, sempre a parità di voti, la preparazione reale è
sicuramente molto diversa? Si è valutato abbastanza un possibile effetto
“perverso” dell’abbandono del metodo individuato appena un paio di mesi fa?

Proviamo a fare un esempio: con
le regole oggi cancellate, le commissioni non avrebbero avuto interesse a
“gonfiare” indiscriminatamente i voti, perché, così facendo, avrebbero
abbassato il loro peso in termini di bonus. Ed avrebbero potuto opporre un buon
argomento alla pressione ambientale, che tutti sappiamo esercitarsi con
particolare forza sui commissari di certe regioni.

Non conosciamo ancora le nuove regole
che il Ministro ha in mente di introdurre, ma ci permettiamo di richiamare la
sua attenzione su una conseguenza possibile: se il voto di maturità dovesse
essere “quotato” così com’è, come dato assoluto e senza una normalizzazione per
contesto, si avrebbe come effetto quello di aumentare la pressione sulle
commissioni e di togliere ancora credibilità all’esame. E’ questo che realmente
si vuole?

E’ di moda in questi giorni
interrogarsi con preoccupazione sul futuro del Paese, ed in particolare dei
giovani, ed invocare misure in grado di invertire la tendenza al declino. Ma,
appena si prova ad introdurne qualcuna, scattano le campagne di opinione,
sorrette dalle più varie ed improbabili coalizioni di interessi. E puntualmente
la spuntano. Ma il prevalere degli
opposti conservatorismi blocca sul nascere ogni tentativo di risalire la china.