di Valerio Capasa, Docente di Materie letterarie nei Licei.
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Scrive Quintiliano in un libro vecchio due millenni che nei bambini risplende la speranza di cose grandi («in pueris elucet spes plurimorum»). Col tempo, invece, questa speranza si spegne («emoritur aetate»), ed è chiaro perciò («manifestum est») che a venir meno non è stata la natura bensì la cura («non naturam defecisse sed curam»): l’alunno è sempre lui, il problema è che nessuno se n’è preso cura.

Ciascuno potrebbe documentare l’eterna validità dell’osservazione contenuta nell’Institutio oratoria. All’asilo o alle elementari (per usare formulazioni più antiche di Quintiliano) i bambini ci vanno correndo: non vedono l’ora di andarci. E quando vai a prenderli all’uscita, ti inondano di racconti sulla loro mattinata. Corrono all’andata, corrono al ritorno. Anche fisicamente, sono protesi in avanti: gli occhi all’infuori, il corpo curvato verso il mondo, quasi volessero mangiarselo.

Al liceo, invece? Stesi sul banco, o spesso sul proprio braccio (alcune, soprattutto ragazze, riescono perfino a prendere appunti, da quella posizione. O almeno, dalla cattedra sembrerebbero appunti). Si trascinano all’andata, si trascinano al ritorno. Se chiedi a un ragazzo liceale com’è andata la sua mattina, altro che racconti dettagliati! «Niente», «bene», «normale», sono le risposte più plausibili (quando non ricorrano direttamente a contrazioni onomatopeiche del genere «’tt’appò»: crasi meridionale per «tutto a posto»). «Niente»: dov’è finita la curiosità del «fanciullino»? possibile che cinque ore siano «niente»? che la vita sia «normale»?

Cos’è venuta meno, dalle elementari al liceo? Non la natura, ma la cura. Noi insegnanti – noi adulti, per essere più precisi – non ci siamo presi cura di lui. E il corpo che era slanciato in avanti si è reclinato sul banco, fiaccato da tonnellate di noia, un’ora dopo l’altra. Era stupito, e ora è annoiato; cantava, e invece si lamenta; aveva gli occhi sgranati e se li ritrova a fessura; voleva fare l’astronauta e ora non sa neanche cosa dovrà scegliere all’università: un capolavoro durato 16 anni, dall’asilo alla maturità!

Non c’entra la natura, non è del tutto vero che crescendo ci si abitua. Noi, noi: c’entriamo noi. Noi insegnanti. Mentre infatti, sotto i nostri occhi, avveniva lo sprofondamento umano, noi continuavamo onestamente il nostro mestiere, e forse a prenderci cura di altro, oppure avevamo una concezione ridotta di “lui”: ci siamo sentiti gratificati mentre imparava le declinazioni o la legalità o il rispetto di ogni genere sessuale, e intanto l’entusiasmo per lo studio e per la realtà evaporava, un po’ come quando ti senti un eroe a segnalare a un bambino che bisogna attraversare sulle strisce pedonali, ma rimani senza fiato quando ti chiede (leopardianamente) che fa la luna in cielo. Noi, intanto, parlavamo in sala docenti della scuola e dei giovani, contestavamo i governi di turno con gli slogan di sempre e condividevamo link per difendere l’istruzione pubblica, cercavamo foulard rossi per il prossimo flashmob e dichiaravamo pubblicamente di non voler adottare libri di testo (che poi, invece, adottavamo comunque).

Qualche anno fa si scioperava contro la proposta delle 24 ore settimanali e altre amenità consimili. Tutti dovevamo essere compatti a bloccare le attività extracurricolari. Tutti. C’era per caso chi voleva comunque proporre un’iniziativa di letteratura o una certificazione di inglese? Non poteva: il diritto allo sciopero era dovere di sciopero. Non c’era niente da fare: tre volte la proposta che quindici alunni partecipassero a un convegno letterario fu bocciata in Collegio docenti. Incontri con i genitori, lettere degli studenti, lacrime del dirigente: niente da fare. Bisognava sacrificarsi per il bene della scuola pubblica. Noi, incoscienti del problema politico più generale, ci ostinavamo a baloccarci nel nostro insignificante particolare vedendoci una volta alla settimana per leggere insieme alcune opere di Giovanni Verga: tempo libero e spese proprie. Ma al convegno non dovevamo andarci, per il bene della collettività. Ci andammo comunque, “zitti zitti in mezzo alla piazza”: io prendendomi tre giorni di ferie, gli alunni assenti per motivi di salute. Dopo cinque mesi in cui avevamo letto e scritto, in cui c’eravamo appassionati e avevamo imparato a confrontarci monograficamente con un autore, proprio non potevamo rinunciare. Lo sconcerto maggiore per me non fu l’opposizione miope da ottobre a febbraio, ma sentire alcuni insegnanti di quella classe – scioperanti fino al midollo per difendere il futuro della scuola – lamentarsi anche il giorno dello scrutinio finale del fatto che questi ragazzi “non si interessano di niente”, “fanno solo il minimo indispensabile”. Scusatemi, ma le loro idee erano le loro bende sugli occhi? Le questioni politiche sono i «cocci aguzzi di bottiglia» sul muro che ci separa dall’anima dei nostri alunni?

Lo so che l’insegnante medio ha già levato gli scudi: noi facciamo già tanto, abbiamo la coscienza a posto; è colpa dei genitori, è colpa della società, è colpa della politica, è colpa della riforma, è colpa della televisione, dei telefonini, di Facebook, dei colleghi che mi hanno preceduto, eccetera eccetera. Mai nostra. L’insegnante possiede nel suo dna la teoria dell’alibi raccontata da Julio Velasco, un celebre allenatore di pallavolo: quando gli schiacciatori schiacciano male danno la colpa agli alzatori, i quali a loro volta danno la colpa a chi è in ricezione, e a lui, poveretto, non resta che incolpare, in maniera improbabile, la battuta dell’avversario. Morale: lo schiacciatore deve imparare a schiacciare bene le palle alzate male; quelle alzate bene, a quel punto, le schiaccerà benissimo. Ed è inutile che quando si perde giocando sulla spiaggia si accusi la sabbia di non essere il campo ideale.

I nostri studenti sono spesso palle alzate male, in un campo di sabbia. Ma è su queste spiagge, con questa palla, che ci tocca giocare. E chi si incarta tra gli alibi, sarebbe meglio che sedesse in panchina. Questa palla, invece, è la mia occasione. Sì, proprio quest’alunno che non è – menomale! – come lo vorrei. Nessuno ha firmato, al momento della laurea, un patto col ministero in cui gli veniva promessa la classe dei sogni e il contesto perfetto. Esiste solo la classe reale, e ogni alunno è una possibilità per me – per me! – di cambiamento.

Voglio dire che insegnare implica l’urgenza di cambiare. Non innanzitutto di far cambiare, ma di cambiare noi (e se nella programmazione inserissimo obiettivi e competenze anche per noi, oltre che per gli alunni?). C’è un’urgenza infatti ancora più radicale rispetto al cambiamento degli altri e delle cose: in sala docenti – dove troppo spesso aleggiano le nubi del lamento – si fanno discorsi sulla riforma, sui fondi per l’edilizia scolastica e per i progetti giusti, sugli alunni, i genitori, i colleghi, i dirigenti, i bidelli, i libri, le strutture, gli spazi. E la carta igienica nei bagni, ovviamente: quello è un eterno bisogno, una vicenda torbida. Insomma, sarebbero proprio tante le cose da cambiare: così tante che viene il sospetto che siano infiniti alibi. Che servano soprattutto, come scriveva T.S. Eliot, a «sognare sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono».

Viviamo in un tempo in cui, franati i sistemi, più che mai viene a galla la natura del problema della scuola: antropologica, prima che politica. Per questo non sarà mai un cambiamento esteriore a produrre quella rivoluzione antropologica di cui avvertiamo il bisogno innanzitutto noi, per non perdere il gusto della pallavolo in nessun campo di sabbia. Cosa ci fa affrontare i problemi senza soffocarci dentro? Non certo accanirsi sui problemi, ma educare una personalità capace di viverli. Identicamente, è inutile far finta di non sapere che esistono molti alunni che studiano nonostante abbiano professori non proprio eccezionali: come li si aiuta? Sostenendoli umanamente.

Cosa deve succedere allora affinché si salvi la natura di un nostro alunno? cosa significa prendersene cura? Deve succedere di incontrare un adulto in cui la natura si è salvata; un adulto che è stato preso a cuore, che si è preso cura di sé.

Ma chi è un adulto così? Uno che sente sulla sua pelle le domande di un ragazzo. Faccio un esempio. In classe non assegno mai paragrafi. Leggo i testi degli autori. Quando ne abbiamo letti alcuni, chiedo ai ragazzi di scriverlo loro, il paragrafo. E un giorno, alla fine del De rerum natura, Martina si presentò con un rotolo su cui aveva disegnato alcune scene di Lucrezio. Qualche giorno dopo mi consegnò la presentazione scritta, in cui spiegava accuratamente come Lucrezio ed Epicuro cerchino di dare «una spiegazione razionale alle inquietudini umane», ma annotava a un certo punto che era un tentativo «triste»: infatti «l’inquietudine mi spinge a non dormire la notte per pensare, a disegnare, a suonare il pianoforte, a dare l’anima nello sport, a leggere per scoprire, a tormentarmi». Questa inquietudine non vuole spiegazioni: infatti, in chiusura della presentazione, la mia alunna scriveva che, «se penso alla pace interiore, mi sembra ancor più spaventosa dell’inquietudine umana».

Cosa può rispondere un insegnante alla domanda «se sia giusto ammirare a tal punto l’inquietudine umana»? Una maturanda mi ha raccontato di aver sentito due insegnanti ridere del suo percorso sull’inquietudine. Ma forse c’è qualcosa di peggio della superficialità dilagante: sono quelli che ti vogliono spiegare la vita, quelli che l’inquietudine l’hanno già passata (e ormai guardano dall’alto del loro ghiacciaio umano quei ragazzi. E quegli strani scrittori che ne fanno l’ossessione delle proprie opere). Chi si sente depositario delle risposte guarda dall’alto, con sufficienza, l’ardore delle domande. Crede che nella sua professione esistano problemi più seri, più concreti, più politici: i fondi, i progetti, il precariato, i ricorsi, le adempienze varie.

Ma come la mettiamo con quell’esplosione di vita (o con quel disagio) che ogni mattina ci piomba addosso dagli sguardi dei nostri alunni e dalle pagine che insegniamo? Ho letto di un insegnante che diceva di ascoltare, mentre spiegava, i silenzi dei suoi alunni. L’avventura dell’insegnamento mi sembra consista esattamente in questa possibilità di rivivere in prima persona la scoperta di sé che un ragazzo – come uno scrittore, uno scienziato, un filosofo – sente scoppiare nella sua vita. E pertanto nell’avvertire di essere inadeguati rispetto all’immensità del bisogno che emerge nei propri alunni: ci chiedono troppo, per fortuna. Saper dire «non lo so»: che bello quando un insegnante risponde «non lo so» alla domanda di un alunno! Perché entrambi sono alla ricerca, non c’è uno solo curioso e l’altro non più curioso ma custode del già saputo. In quest’ultimo caso l’insegnante potrà al massimo generare ripetitori: ed è, a mio avviso, il peggior esito a cui possa andare incontro.

Quasi tutte le interrogazioni dei miei alunni sono piene di domande a cui io non so rispondere: sono vere (e per questo verificano), non retoriche. «Voglio che tu sia diverso, io voglio che tu sia speciale, voglio che tu abbia qualcosa in più della media nazionale», canta Niccolò Fabi: «non vorrei che tu dicessi quello che so, ma quello che non so dire». Papa Francesco parlerebbe di un insegnante dal pensiero «incompiuto»: «i ragazzi capiscono, hanno “fiuto”, e sono attratti dai professori che hanno un pensiero aperto, “incompiuto”, che cercano un “di più”, e così contagiano questo atteggiamento agli studenti»

Mi auguro che noi avvertiamo lo stridore imbarazzante tra la nostra onesta professionalità e la potenza di vita dei ragazzi e dei geni di cui parliamo in classe. Quando un ragazzo, infatti, si annoia durante una lezione, (e «la lentezza dell’ora / è spietata, per chi non aspetta più nulla», ha scritto Pavese), come mi sfida quello sguardo annoiato? cosa mi chiede di cambiare nel mio modo di fare lezione e più profondamente nella mia persona? Inutile chiudere la partita bollandolo con un’insufficienza o peggio con un’etichetta, sbraitandogli contro, oppure tollerandolo, lamentandosi filosoficamente del mondo crudele, o sostenendo ai colloqui la solita storia che il ragazzo… «è intelligente» (e a chi lo si nega, oramai?) ma «potrebbe fare di più». Caro genio della psicologia, se il ragazzo «non si applica» è perché la volontà non si muove da sola, non si autoalimenta: ha bisogno di una benzina che si chiama interesse. Altrimenti non solo Umberto Galimberti non avrebbe scritto L’ospite inquietante, ma Svevo non avrebbe sprecato 60 pagine per dire che Zeno non smise mai di fumare (il proposito è un vizio peggiore del vizio da cui vorrebbe affrancarsi).

Che cosa suscita l’interesse di un ragazzo? che cosa lo smuove nel profondo? Non certo una politica su misura della nostra testa, né sostituire l’Iliade con Troy (anche perché è mille volte più interessante l’Iliade) o la solita lezione con una conferenza sull’alimentazione (a cui si deportano gli alunni) o il libro con la lim (che troppo spesso rende solo ridicoli gli insegnanti di fronte a smanettoni nati). Non qualcosa di esterno che cambia, ma un io cambiato.

Esiste una riforma che può garantire questo cambiamento? Non credo proprio. Certo, può favorirlo oppure no, nulla è indifferente, ma non mi pare che valga la pena stracciarsi le vesti e scendere in piazza e bloccare gli scrutini (o, per attenersi al vocabolario, rinviarli) quando la confusione storica sulle proposte è tale da rendere evidente che ogni intervento strutturale non sfiora che la superficie dei problemi. Al fondo, non vedo un noi insegnanti buoni contro loro cattivi (politici o dirigenti o studenti o genitori), e non penso che i danni vengano tutti da fuori, perché ne conosciamo fin troppi dentro le scuole.

Perciò mi permetto di avanzare due proposte per la valutazione degli insegnanti. Premesso che non si possono sparare quotidianamente voti agli altri e non volerne mai su di sé, che non si può mettere in discussione l’alunno e non volersi mai mettere in discussione, che non si possono boicottare le prove Invalsi e poi non augurarsi che i propri alunni non boicottino i compiti in classe –, non credo sia giusto valutarli per i progetti che fanno o per il loro appeal. Credo che gli unici due criteri invece siano i seguenti:

1. il signor docente non vede l’ora che arrivi il lunedì o non vede l’ora che arrivi il sabato?

2. il signor docente riesce a farsi ascoltare quando parla della sua materia da un gruppo di adolescenti nel tempo libero? Che so, alle 23 del sabato in una pizzeria, senza la minaccia del voto e del registro?

Se le risposte sono «lunedì» e «sì», egli è pronto per l’immissione in ruolo e per la progressione di carriera; altrimenti dovrebbe cambiare mestiere. Gli unici inconvenienti sono i parametri di valutazione: quando c’è di mezzo l’umano, la misurabilità è sempre – per fortuna – relativa. Tuttavia il secondo quesito può essere facilmente verificato: le occasioni non mancano. Per il primo, occorrerebbero indagini più accurate, ma in molti fanno spesso dichiarazioni inequivocabili sull’argomento.

So che non sono proposte che si possano inserire tra gli emendamenti del ddl scuola, ma sarebbe utile portarle di fronte al tribunale supremo della propria coscienza: lì si gioca infatti la grande partita dell’insegnamento. Per chi volesse approfondire questo aspetto cruciale – il più apparentemente impalpabile, e invece il più incidente storicamente – suggerisco una canzone di quello che è a mio avviso il più grande scrittore italiano dell’ultimo mezzo secolo, Giorgio Gaber: «Amore, non ha senso incolpare qualcuno/ o calcare la mano / su questo o quel difetto/ o su altre cose che non contano affatto. / Amore, non ti prendo sul serio: / quello che ci manca si chiama desiderio».

Il desiderio – ha ragione Gaber – «è l’unico motore che muove il mondo». Altrimenti il miglior sistema, l’aggiustamento di «questo o quel difetto», non sposterà di una virgola la sostanza della questione. Che è, in fondo, un problema di desiderio: prima che degli alunni, degli insegnanti. Perché non ci si può illudere che un ragazzo legga se l’insegnante non legge o che un ragazzo abbia voglia di andare a scuola se l’insegnante non vede l’ora che arrivi il sabato. Insomma, una generazione di ragazzi inizia a desiderare – viene curata nella sua natura – se le capita di incontrare adulti che desiderano. Ma come rinasce il desiderio in un insegnante? A me sembra il problema più concreto – e il più snobbato – per la professione docente: ci capiterà, tra tutte le questioni sulla scuola, di mettere qualche volta a tema anche questa domanda?